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Racconti di viaggio: lasciarsi (andare) un giorno a Roma.

31 agosto 2010 | Scritto da Giovanna Gallo | 1 commento

Il prologo

Tre giorni a Roma con una sorella vergine di cupoloni, altari della patria e fori. Avendo già visto tutto, ho osservato altro: quegli strani esseri che il mondo chiama turisti.

Il turista sono io, sei tu. Lo siamo stati, lo saremo. Che si prenda la macchina per raggiungere quella località di mare vicino casa o che si opti per la crociera Costa.

Siamo tutti turisti, eppure gli altri sono sempre diversi.

Sono sempre malvestiti, maleodoranti per le lunghe camminate, troppo bianchicci per la stagione, troppo retrò con quei calzari immotivati che si stampano sui piedi di default. Roma li (r)accoglie tutti: te li ritrovi a sgranocchiare patatine unte ancorati alle colonne del Pantheon o sognanti a lanciare una monetina a Trevi. Ne ho visti 100, 200, 400, prosciugarsi al sole di un Agosto al capolinea, a passeggiare tra i fori romani. Li ho visti trascinarsi trolley e figli allo stesso modo. Li ho visti pagare 5 Euro per una foto col soldato romano di turno, con spada glitterata in dotazione e corona di Agrippina (in versione Drag Queen) d’ordinanza.

Li ho visti bere a piene mani dalla fontana di Trevi, mai consapevoli del covo di batteri mortali che ristagna in quelle acque al sapor di monetine e desideri.

Li ho visti, estremamente fighi in versione russa e tedesca, bionde fulgidezze che non conoscono sudore e patire.

Tu sei lì, e li guardi, ti senti tronfio di esperienza perché la lingua è la tua, perché ai ristoratori che ti abbordano per due spaghetti with tomatoes puoi dire: “Sono italiano“, col sottotitolo “Non mi freghi col tuo menù turistico“, perché sai che il tuo caffè costerà sempre meno di quello dell’inglese col cappello di paglia. Guardi giapponesine perfette vestite come un manga che osservano il Vittoriano basite, e ti chiedi cosa pensano di quell’accozzaglia di Vittorie Alate. E la risposta è sempre: Niente, sono solo turisti.

Ma tutti lo siamo, tutti lo siamo stati e lo saremo. Gli autoctoni dei posti che visiteremo guarderanno noi così come noi sezioniamo look e abitudini di quella fiumana di gente che ogni anno inonda le nostre città d’arte di soldi e turismo. Guarderà le nostre scarpe ridicole e il nostro ridicolo modo di vestire, riderà per i soldi che spendiamo per mangiare quei piatti tipici che non preparano mai, sparlerà delle nostre abitudini strane di italiani gesticolanti e ridanciani.

L’aneddoto

Tutto questo è un prologo. Un prologo per dire che no, non è giusto trattare i turisti come alieni, perché sono uguali a noi, a come saremmo in versione vacanziera.

Ma a tre dei protagonisti del mio week-end romano questo non lo concedo. Me li vedo come in una pièce, i miei tre aneddotici characters. Un lui e due lei: turche entrambe, mamma e figlia.

Quando ti siedi praticamente in braccio alle statue di Trevi stremata dal cammino, quelli che hai accanto diventano un diversivo alla noia. I miei tre protagonisti a cui non concendo il beneficio del dubbio della normalità, sono un trentenne piacione romano – massima ambizione: somigliare a Stefano Ricucci nel look – tra le mani un libro da intellettualoide. Mamma e figlia sembrano uscite da un film di Ozpetek: la prima carina, ma niente di che, passati ormai per lei gli anni della gioventù. Vestita come sua figlia – total white per entrambe, con un interessante fascia colorata ricolma di perline multicolor in stile anni ’90 – l’amabile signora alta un metro e una noce ha la voce più stridula mai sentita e blatera in turco.

Il piacione simil Ricucci vuole provolare la figlia, ma la piglia alla larga: si butta a pesce sulla conquista della madre. Davanti ai miei basiti occhi, dopo aver strabiliato gli astanti con un inglese degno di nota (disciplinare), il baldo si mette a scambiare perle musicali con la signora – da O’ sole mio a Malafemmena– subito contraccambiate da nenie in turco cantate dalla bella signora.

L’apice si raggiunge al momento del valzer: genero (ormai è quasi fatta) e suocera, si alzano per danzare insieme sulle note di My Way in turco, ovviamente intonate dalla signora, il tutto a volumi non consentiti dalla legge. Si è fermato tutto: il tran tran dei turisti impegnati nella lavanda dei piedi in fontana; l’attività degli artisti di strada (in gallery due tra i più fantasiosi); il velo del tempo si è squarciato ed è venuto buio su tutta la terra.

L’epilogo

Non ci è dato sapere se il baldo Ricucci de noantri sia riuscito nel suo intento di broccolare la bionda turca in visita in Italia. Non vogliamo neanche saperlo. Ma se ti riconosci, caro giovane travestito da baldanzoso uomo d’affari in vacanza, ti prego, devi sapere una cosa: in quel momento, guardandoti lì a sfoderare le tue armi di seduzione, per un attimo, mi hai fatto dimenticare di avere i piedi gonfi come due Buondì.

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...e io vendo dispiaceri

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Categoria: Lifestyle
Tag: fontana di Trevi, giovanna gallo, racconti divertenti, Roma, turismo roma, viaggi, visitare roma

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    31 agosto 2010 alle 14:49

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