Le medie negli anni novanta, un periodo in cui tutte abbiamo vissuto momenti imbarazzanti. Primi amori, make-up sbagliato, sopracciglia esagerate. Ecco un racconto ironico e nostalgico di quel periodo.
Ve l’ho già detto che ero brutta, alle medie? (Sì, ve l’ho detto qui e anche qui).
Brutta nel senso che la pinzetta delle sopracciglia, gli smalti e le creme idratanti erano lontane anni luce da me come la decenza da Nicole Minetti. Ma che volete farci, erano gli anni novanta: il mondo si aspettava da noi che fossimo tutti un po’ sfigati (mentre da quelli di oggi si aspetta che siano tutti una copia sputata di Selena Gomez, chiunque lei sia).
Alle medie, sia chiaro, non facevamo altro che innamorarci. Nelle donne, in quel periodo che va dai 10 ai 13 anni, l’ormone è un po’ sopito, ché non è che ti svegli una mattina e vuoi trombare col vicino di banco, no, è tutta una questione d’amore. Di devastante, struggente, incredibile passione amorosa.
Tra parentesi, mai ricambiata.
Innanzitutto, alle medie, negli anni novanta, essere fidanzati era uno status symbol che solo quelle bellebelle in ogni epoca e luogo potevano permettersi. Queste squinzie perfette non sottostavano alle leggi della (terrificante) moda di quegli anni e non risentivano del crespo nei capelli che si formava dopo aver usato una piastra Remington (quelle con la modalità friseè, per intenderci), erano magre e filiformi, avevano SEMPRE una zia estetista e una parrucchiera da sfruttare per rendersi presentabili.
Quelle erano fidanzate, sempre, ricercate, richiestissime ai party, sapevano cantare, fare le torte, baciare con la lingua.
A te non rimaneva che essere la loro amica del cuore e ascoltare senza sosta e sottoforma di discorso diretto tutte le ultime novità sulla loro vita sentimentale.
Alle medie io non ero molto carina e per di più pretendevo che i ragazzi con cui mi interfacciavo fossero intelligenti, divertenti, maturi e sentimentalmente generosi, condizioni che a 12 anni sono tanto belle quanto introvabili.
Insomma, cercavo un mix tra Dylan Dog (gentile, sexy e profondo), Dawson (intelligente e maturo) e Nick Carter (ricco) e invece avevo davanti sempre e comunque un Antonio qualsiasi che non spiccicava una parola in italiano e il massimo del romanticismo lo dimostrava scrivendoti “Sei bona”, “Sei carina”, “Sei ok” (se proprio eri un cesso, ma recuperabile) sul diario.
A volte ci innamoravamo seriamente, altre volte erano infatuazioni inconsistenti come gli articoli di Top Girl (Top You!).
Io una volta mi sono innamorata seriamente, alle medie. Di quelle batoste che non dimenticherò mai. Tipo che lui era più grande, un po’ artista e gasato a mille, circondato da tutte le ragazze in età da marito del paese che cercavano di attirarlo con tette&promesse di felicità. Io avevo le tette ma non sapevo come usarle e (per fortuna) dopo aver sofferto come un cane per la mancanza di attenzione del mio uomo ideale, aver sprecato centinaia e centinaia di gettoni per telefonare a casa e mettere giù al suo “Pronto?”, versato fiumi d’inchiostro sul diario, cimentandomi anche nell’incauta composizione di poesie (“Quando penso a lui una spada mi trafigge l’anima” era una delle hit – ve l’avevo detto che non sono brava a buttar giù versi in endecasillabi), ho lasciato perdere.
E ho cominciato a innamorarmi di tutti, non ricambiata, e a sperare che il mio Dylan/Dawson/Nick arrivasse e mi facesse vivere una storia da telefilm
Ma a Sant’Eufemia, Lamezia Terme, Calabria, paesino in cui se starnutisci il vicino di casa è lì che ti snocciola le cause del tuo male e tutti conoscono vita, morte e miracoli di tutti, questo non poteva avvenire.
Anche perché erano gli anni novanta, periodo di stasi fashionistica e di tremenda assuefazione al Cioè, cose che, come potete ben immaginare, non aiutavano nè l’autostima nè l’agenda.
La cosa che più mi sconvolge di quel periodo era la totale assenza di tecnologia. Oggi, tra Facebook, What’sApp, Skype e Twitter è talmente facile fare i compiti insieme anche se a distanza che al pensiero di quanto eravamo teneri e sfigati noi con il computer a manovella mi viene un brivido.
In pratica, nel periodo della mia vita in cui il tasso di socialità doveva essere al massimo e avrei dato qualunque cosa per essere popolare, mi mancavano i mezzi di comunicazione per sfondare. Ero senza smartphone e vivevo benissimo. Per molti anni non ho avuto una connessione ad Internet decente e non soffrivo di orticaria. Leggevo un mucchio di libri e ne tenevo il conto in fogli di carta, una lista lunghissima. Mi facevo dei tagli strani ma nessuno lo notava, perché avevamo tutti dei capelli un po’ così.
Un’altra cosa sconvolgente: fino al magico avvento degli sms e dei cellulari ci telefonavamo a casa. Dovevamo passare per mamme, zie, cugine e sorelle prima di arrivare alla meta, un’amica o un ragazzo un po’ carino. Dicevamo “Pronto, sono Giovanna. Mi potrebbe passare Paola?” e da quel momento partiva il “Metti giù” di tua mamma che vedeva nelle telefonate che duravano più di trenta secondi una bolletta indecente.
Io ci penso con nostalgia, ai miei tredici anni. Ero incommensurabilmente sfigata, avrei dato tutto per avere un boyfriend decente e innalzare così il mio status e per essere l’amica che tutti avrebbero voluto al loro fianco.
Invece ero solo una ragazzina con una maglia arcobaleno (la mia preferita fino ai 14 anni, poi non sono più riuscita ad infilarla dalla testa), le Superga ai piedi e un casino di amici che ancora oggi sono tali e che hanno un numero tale di informazioni sulla mia adolescenza da potermi ricattare pubblicamente da qui alla morte.
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