Il racconto di un viaggio in Marocco.
E’ il nostro primo viaggio con un tour organizzato (“Folli!” ci hanno detto alcuni “andate da soli, è meglio“; “Bravi!” ci hanno detto altri “in un posto così andare da soli è un casino“), e la prima volta in Africa. Dell’Africa non sappiamo nulla, se non che a volte, quando torni, ti manca un bel po’, quasi da star male. Il Marocco ci accoglie a Casablanca, ai sonnolenti imbarchi dei voli nazionali, dove la polizia locale quasi non ti guarda e il gate è una porta sulla pista. La nostra prima meta è Marrakech, l’allegra, spensierata, colorata Marrakech. Prima di atterrare, di questa città non sappiamo nulla, o quasi. Lo scopriamo dopo, com’è davvero: una cosa che non avevamo mai visto da nessuna parte.
Marrakech è calda, ma talmente viva che non ti lascia il tempo di sudare. Il suo cuore non è un cumulo di turisti, come se ne vedono troppi sulla Rambla, o tra i vicoli di Venezia, o al Circo Massimo, ma un sapiente mix di Occidente, smartphone, marsupi, sandali e donne velate, bambini sorridenti, thè alla menta e mercati-labirinto. La sensazione che ti piglia alla gola è di far parte di quel tutto che si snoda da piazza Djema el Fna e arriva fino agli angoli più remoti del Souk. Sei lì, ed è dove dovresti essere, anche se non hai mai visto niente di simile.
Il primo giorno è un lento girovagare tra incantatori di serpenti, cantastorie e scimmiette tristemente vestite da bambina, messe a disposizione dei turisti incantati dalle loro sembianze umane. Piazza Djema El Fna, che da un lato guarda alla Koutubia e dall’altro si tuffa nei vicoli animati, si accende di sera. Al tramonto il ritmo delle chiacchiere e la sua atmosfera cambia ancora: diventa una sagra a cielo aperto, una gara a colpi di street-food tipico, di carne e verdura, di spezie e sapori. Si accende di luci e di persone nuove: spariscono gli incantatori di serpenti e arrivano gli spiedini, i peperoni grigliati, la menta, il cous-cous. Uno spettacolo incredibile, che ancora una volta ti fa sentire parte integrante del momento: non capita spesso, ma quando succede ti strabilia.
Non c’è niente di più leggero dell’atmosfera di Marrakech: la parte vecchia pullula di bambini, di turisti con immense cartine che si ritrovano in vie dai nomi impronunciabili, di donne che chiacchierano, di venditori di olio di Argan, bracciali, bandierine, giri in calesse. Vediamo taxi a centinaia, vecchie Uno come in Italia non se ne trovano più, e vediamo asini, e donne bellissime nascoste dal velo, e datteri e fichi d’India e fiori secchi.
La guida ci porta nelle kasbah più belle e lussuose, ma anche nel Souk, che è un mix tra un posto dove non metteresti mai piede e un altro dove rimarresti tutta la vita. Vecchie botteghe, pescherie e macellerie a cielo aperto ti accolgono quando sei dentro, e con un occhio cerchi di non perderti nel labirinto di stradine e con l’altro accetti e ricambi i sorrisi dei venditori che cercano di propinarti bicchieri di thè alla menta, scarpe contraffatte e cianfrusaglie adorabili. Compreresti tutto, e non compreresti niente. Un paio di donne mi avvicinano con la scusa più vecchia del mondo: sembri berbera, mi dicono, sei uguale a noi, e mi guardano i capelli, e studiano il colore degli occhi e poi mi mettono un braccialetto porta fortuna al braccio, e cercano di vendermene un altro. Qui tutto ha un costo, anche la foto scattata agli incantatori di serpenti: 10 o 20 Dirham sono obbligatori, quasi quanto contrattare il prezzo delle cose, dalla corsa in taxi alla bottiglia d’acqua.
Il terzo giorno in Marocco inizia con un viaggio in jeep: attraversiamo l’Atlante e andiamo su e giù per strette stradine di montagna insieme ai nostri compagni di viaggio e alla nostra guida Abdi, esperto di queste vaste distese di terra e deserto del Sud. Dobbiamo raggiungere Ouarzazate, e nel frattempo vediamo scorrere dal finestrino oasi, bambini che sorridono e salutano, e un mare di altre cose che ho bene impresse nella mente, ma che è difficile raccontare.
Ti dicono spesso che l’Africa è negli occhi dei bambini, che sono grandi ed espressivi e ti guardano dentro. Qui in Marocco i bambini scorazzano a bordo strada, o a dorso di mulo, chiedono caramelle e una manciata di monete, e sebbene in Italia grideremmo al pericolo vedendoli soli sul ciglio di una via sterrata, qui non ti sembra che abbiano bisogno di aiuto. E’ tutto relativo: anche la sensazione che qualcosa sia sbagliata in una parte del mondo, mentre dall’altra non lo è affatto.
Anche nei villaggi più remoti, quelli delle case costruite con fango e paglia, c’è una piccola scuola: tutti i bambini sono obbligati a frequentarla, perché oltre all’acqua, l’unico modo per garantire la civiltà, qui, è l’alfabetizzazione.
La jeep corre veloce per chilometri e chilometri fatti di terra bruciata da sole e piccole palme verdissime che grondano datteri. Qui il verde non è uguale a nessun verde già visto: è un colore intenso che grida vita da tutti i pori. Le oasi sono delle vallate in cui i villaggi e le coltivazioni si snodano fino al pezzo di deserto successivo. Ogni tanto passa qualcuno, a volte siamo i soli abitanti della strada. Poi, a un certo punto, appare una città, una città vera: con bancomat, banche, ristoranti, macchine. E’ una cosa così straniante, passare dal deserto solitario alla civiltà, che quasi non ci puoi credere. E’ una sensazione che non abbiamo mai sperimentato prima, e ci confonde tantissimo.
Il Sud, ci dice la guida,è il posto più vero del Marocco: qui si vive ancora come una volta e le città grandi sono rare e lontane da tutto. A Rissani ci fermiamo al mercato settimanale, quello che raccoglie tutti gli abitanti delle valli e dei territori limitrofi. Anche qui ci accoglie un’atmosfera che non avevamo mai sperimentato sulla pelle. La gente del posto contratta senza sosta per portarsi a casa pecore, asini, datteri, olive. L’arte antica dei mercanti si fa strada in questi vicoli pieni di gente e suoni. Ancora una volta, la sensazione è quella di trovarsi a milioni di chilometri dal posto che chiamiamo casa, eppure ci sentiamo a nostro agio, in questo piccolo pezzo di mondo.
Quando arriviamo alle soglie delle dune sabbiose del Sahara è quasi sera. La prima cosa che facciamo è lasciare i bagagli alla tenda berbera, il nostro rifugio per la notte, e correre a piedi nudi su quella enorme, incredibile, inquietante distesa di sabbia rossa. E’ come un mare, senza una spiaggia verso cui nuotare in cerca di riparo. In compagnia di una guida saliamo e scendiamo, saliamo e scendiamo, e le dune non finiscono mai, e intorno ci sono i dromedari e i nostri compagni di viaggio con altre guide e il sole che sta per tramontare. Qui non piove mai, ci dice la nostra guida.
E invece poi piove per davvero. Nella tenda, di notte, vediamo i fulmini illuminare a giorno le dune e la sensazione di stare vivendo qualcosa di incredibile, nonostante il sonno e la fatica dei chilometri macinati sotto il sole, ci lascia un buon sapore in bocca, misto alla sabbia del deserto.
Al mattino ci svegliano presto e ci fanno salire su un dromedario. Cavalchiamo lenti le dune che è ancora buio, e raggiungiamo una cresta quando comincia a fare chiaro. Siamo un gruppo di quaranta persone, quassù, ma è come essere soli. La pioggia straordinaria della notte ha lasciato il posto a un cielo coperto e il sole fa fatica ad alzarsi dalle dune, ma la luce dell’alba che sale da laggiù è qualcosa che non puoi dimenticare.
Poi, è ora di rimettersi ancora in viaggio, verso nuovi villaggi. Il più struggente è Tamegroute, che è uguale dal 1500 e si erge su tre livelli diversi, tra vicoli strettissimi e bui che solo ogni tanto lasciano passare un po’ di luce. Ogni viaggio ha un momento speciale, è il nostro momento speciale è a Tamgroute, a chilometri dal mondo che conosciamo, circondati da bambini e dignità.
A Tamegroute c’è una cooperativa che produce ceramiche, le più belle del Marocco. Nascono dall’argilla pastosa e vengono decorate a mano con i pigmenti naturali, e poi mandate in giro per il paese a disposizione di costruttori e turisti. Ci accoglie un ragazzo dal sorriso gentile e ci fa vedere come nasce una piccola tajine, il tipico contenitore in cui vengono cotte carni e verdure. Si infila in un buco nel terreno e fa girare un tornio con un pedale. Poi prende un uncino e disegna una stella. Ci sono i forni, scavati nella terra, che lavorano a fuoco lento l’argilla per trasformale in un soprammobile, un piatto, un vaso.
Siamo circondati da polvere, fango e bambini e nessun attimo è mai sembrato più giusto di questo.
Qui la dignità di un lavoro antico, fatto come una volta, per secoli e secoli, ha il gusto dell’essenziale. A chilometri di distanza dal mondo a cui siamo abituati, fatto di comfort e sprechi, abbiamo trovato quello che cercavamo: la consapevolezza che per essere davvero felici non serve mai il “troppo”.
La valle del Draa ci accoglie con i suoi palmeti, l’olio di Argan, i suoi datteri giganti e ci riporta sulla strada per Marrakech. A Zagora finisce il nostro viaggio nel Sud del Marocco. A Marrakech, con il gruppo che ci ha accompagnati per più di 1500 km in questo Sud denso, ci diciamo arrivederci.
Quello che abbiamo visto in questa settimana è un mondo che pensavamo di conoscere dai libri e dai racconti. Niente però è mai come ti aspetti: a volte è di meno, ma a volte è un sacco di più.
Chissà se abbiamo visto il Marocco autentico, ci chiediamo, ora che siamo tornati al nostro letto, i nostri cuscini, il nostro Wifi sempre attivo, la nostra acqua potabile, le nostre macellerie rassicuranti, la gente che conosciamo. Chissà se è quello vero.
Negli occhi di due piccoli che regalavano origami fatti d’erba, nella dignità delle ceramiche di Tamegroute, in ogni villaggio incontrato e oltrepassato, nel deserto, in ogni cous-cous assaggiato, nella Biblioteca con i testi antichissimi, nei mercati pieni di polvere e gente, nelle chiacchiere scambiate con chi dell’Italia ha un ricordo lontano, chi ci ha lasciato un parente, una moglie, un figlio, e anche nel turbine di Marrakech, io ho la sensazione di aver vissuto qualcosa di reale, e questo mi basta.
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