Il lavoro dei sogni: tutti ne abbiamo uno e pochi fortunati possono dire di fare ciò che desideravano da bambini. Questa è una riflessione sul lavoro, su ciò che volevamo essere e su ciò che in realtà siamo. Per trovare una risposta alla domanda: E io, chi volevo essere da piccolo? e scoprire a che punto siamo arrivati da grandi.
Non so voi ma, a parte la scrittura, la passione più pura e resistente che io abbia mai avuto, tutte i miei vecchi sogni sono stati in qualche modo influenzati dalla televisione. Per cui non sconvolgetevi se a un certo punto del pezzo vi informerò candidamente che per un periodo “Avrei tanto voluto fare la Gialappa’s Band”: d’altronde chi non vorrebbe essere la Gialappa’s Band?
In principio ho avuto una fase ballerina, come tutte.
La fase “Voglio fare la ballerina” era impossibile da eludere, perché negli anni ’80 se non ballavi sotto una luce stroboscopica non potevi dirti arrivata ed Heather Parisi era un po’ dovunque – le sue gambe sempre altrove dislocate – e comunque a 3 anni il fisico ce lo abbiamo tutte e con un tutù persino io sembravo aggraziata. Questa fase si sviluppa in modi differenti (e negli uomini si tramuta in “Voglio fare il calciatore“): o si diventa effettivamente delle ballerine – almeno fino ai 12 anni, periodo in cui decidi di prendere in mano la tua vita e di mollare le lezioni per tuffarti nel mondo della nullafacenza adolescenziale – o ci si scopre tremendamente rigide e pigre da non riuscire a gestire uno spostamento dal divano alla cucina, figuriamoci una quinta posizione.
Detto questo, ho avuto la fase ballerina anche io, che è durata pochissimo, il tempo di Cicale, per intenderci.
Poi sono passata alla fase cantante inetta: mai preso una lezione in vita mia, eppure intonata e con grande estensione vocale (che non vuol dire niente, ma all’epoca non lo sapevo), sono riuscita ad incidere un disco dall’ improbabile titolo Bimbo Star, a partecipare a innumerevoli recite scolastiche nei panni della solista, a seguito di faide per il ruolo che neanche al Glee Club, a diventare membro di cori e band. Ma ero pigra pure per quello. Ancora oggi, il rimpianto più grande di mia madre è quello di non avermi mai visto cantare in un coro polifonico, di quelli con la divisa, per capirci.
Sono passata poi direttamente alla fase archeologica. Da un veloce sondaggio, anche questa è una fase molto comune: mi chiedo cosa possa trovarci di affascinante una seienne in ossa e sabbia, ma tant’è. Per questa passione devo ringraziare Relic Hunter, che raccontava le avventure di una donna in tenuta da esploratrice alle prese con reperti di ogni tipo. L’archeologia me lo sono portata dietro fino a quasi il liceo come Piano B, poi l’allergia alla polvere ha vinto. E anche il fatto che la divisa da esploratore mi fa sembrare un grosso kiwi.
Ho avuto anche una fase fugace da “traduttrice e interprete di lingue orientali” e blateravo in giro di voler andare nello Yemen, senza sapere minimamente dove si trovasse, solo perché la media dei miei coetanei non sapeva neanche pronunciarlo e faceva molto intellettuale. Quando ho capito che non avrei avuto la costanza di studiare l’arabo con la stessa passione con cui scrivevo gli articoli per il giornale della scuola ho lasciato perdere, e meno male, che dire di voler andare nello Yemen non faceva di me esattamente una Popular del liceo.
All’Università ovviamente è arrivata la fase “Voglio essere Licia Colò“. Licia è una creatura mitologica metà donna metà boccoli che gira il mondo, scala ripide salite, aggira scogli, assaggia improbabili piatti tipici e affronta il mare con il sorriso perennemente sulle labbra. L’idea che la paghino per visitare Santorini o le Maldive o Lisbona ancora adesso turba le mie notti e mi fa pentire di non aver frequentato un master per diventare come lei e vivere felice tra Aruba e le Seychelles.
Parallelamente alla fase “Licia Colò” (che negli uomini si palese invece sotto forma di “Volevo essere un Turista per caso” o “Volevo essere Alberto Angela“), è arrivata la mia fase preferita: “Volevo essere la Gialappa’s Band“.
Non sono mai uscita da quella fase. Parlare a ruota libera di qualsiasi argomento mi passi per la testa e suscitare ilarità è più o meno quello che faccio su questo blog da anni. Di più, essere pagata per dire puttanate: a quello non ci sono ancora arrivata (ma datemi un paio d’anni e avrò un programma tutto mio in radio alle 3 del mattino).
Ho avuto anche un’improbabile fase “Voglio essere Alessandro Baricco” e “Vorrei diventare un Indagatore dell’incubo” .
Attualmente sono nella fase “Vorrei essere Pif e condurre Il Testimone“. Programma di rara intelligenza, Il testimone e il suo conduttore mi stanno obnubilando il cervello dall’invidia.
E poi c’è quella cosa, la scrittura. Quella è una costante, la lascio per ultima. Il primo tema l’ho scritto a sette anni e secondo la maestra faceva schifo. Parlavo delle cure maniacali che mio padre riservava a un uccellino anziché a me. L’ho scritto a sette anni, ma a rileggerlo pare che, con parole e temi differenti, l’abbia scritto l’altro ieri. A dieci anni, usando una macchina da scrivere, ho iniziato il mio primo libro. Solo che il pensiero di me che a dieci anni mi metto a scrivere un libro mi emozionava e mi faceva piangere, così ho smesso (la mia sindrome premestruale è evidentemente nata con me).
Ho sempre voluto scrivere ed è quello che faccio, vent’anni dopo. Nonostante la Gialappa’s, nonostante Pif, se c’è qualcosa che mi sembra più vicino al lavoro dei miei sogni è questo: alzarmi ogni mattina, battere sui tasti e scrivere.
Scrivo solo se sono ispirata, ovvero se ho qualcosa da dire (e bene), anche se non ne ho un tornaconto diretto.
Sono ancora nella fase “giornalista” , non ne sono mai uscita. E adesso so che l’ispirazione è il mio tornaconto, d’altronde: la sensazione di essere esattamente dove volevo.
Lorenzo Renzulli says
Penso che i due momenti più significativi, che hanno influenzato la mia formazione, siano stati quando a 6 anni ho ricevuto il mio primo computer in regalo, un Commodore64 e, punto di svolta ancor più significativo, quando alla fine del liceo, momento di scelte importanti, in Italia iniziò a diffondersi l’uso di Internet.
Ho sempre amato scrivere e a 6 anni già “programmavo” in Basic sul mio Commodore, se da bambino mi avessero detto che avrei lavorato da casa col computer, programmando e scrivendo per il web, sarei stato il primo a non crederci, anche perché non avrei capito il termine “web”.
Valentina Gattei (@Valuita) says
Ciao Giò,
con questo articolo hai aperto il cassetto dei miei ricordi.
Nell’ordine avrei voluto essere:
-una grande rockstar (salvo che mia madre all’età di 7 anni ha infranto il mio sogno più grande dicendomi che ero stonata come una campana. A poco valevano le mie esercitazioni di fronte allo specchio e il tifo dei miei fan immaginari…)
– una ballerina di Non è la Rai (so che non mi fa onore, ma lo desideravo molto!) Peccato che a 14 anni ero alta la metà di adesso e pesavo come ora, quindi non avevo proprio il fisico alla Ambra Angiolini…
– scrittrice di romanzi. Compravo quaderni che cominciavo a scrivere e dopo 5/10 pagine avevo il blocco dello scrittore (ovvero capivo che la storia che stavo scrivendo non stava in piedi)
– la missionaria in Africa, poi ho scoperto che mi piaceva troppo uscire, bere e andare alle feste. Insomma non combaciavano proprio dai…
– crescendo pensavo che volevo lavorare nel mondo della comunicazione e fare un lavoro creativo. Tutto sommato ci sono riuscita, anche se non completamente. Perchè sognavo sì di fare quello che a oggi faccio, ma strapagata e con una governante che mi aspettasse a casa e sbrigasse lei le mille faccende e incombenze giornaliere. Prima fra tutte: PULIRE.
Lasciamo perdere lo stipendio che alla fine io sono una che si accontenta, ma… voglio la governante! Datemi una governante e sarò felice 🙂
giada says
Non mi capita mai di fare commenti sui blog che leggo, ma in questo caso faccio un’eccezione, perche’ il blog merita davvero e voglio scriverlo a chiare lettere.