L’altro giorno scorrevo il profilo Instagram di Mariano di Vaio. Per chi non lo sapesse, di Vaio è un modello di Assisi che fa il fashion blogger, e che ha una cosa come quattro milioni di followers su Instagram e circa due milioni su Facebook. Per il suo matrimonio è riuscito a farsi sponsorizzare in tutto, dai calzini alla torta, e anche adesso che è in luna di miele con sua moglie riesce a pubblicare post commerciali da Cuba. L’impressione è quella che si sia sposato a favore dei Like su Instagram, e, credetemi, ne ha avuti davvero un sacco: le sue foto sono effettivamente bellissime, lui è fotogenico a manetta, le cose che fa sono fichissime.
Ovviamente Mariano di Vaio ha anche un blog, MDVstyle, dove dispensa consigli di italian style al mondo intero. Perfetto lui e perfette le sue foto, perfetti i suoi look, ma imperfetto il suo blog. Sapete perché? Perché MDV è un influencer, e basta. Del suo viaggio meraviglioso riesce a dire quattro parole in un insulso inglese e lascia tutto alle immagini: perché Mariano ha qualcuno che gli scatta foto bellissime trasformando i suoi momenti privati in attimi da condividere, ma nessuno che scriva contenuti degni di questo nome. Eppure si definisce blogger, perché, in teoria, attraverso le sue foto fa quello che in gergo viene definito storytelling, cioè un racconto online, costante e quotidiano, della sua vita, del suo lavoro, dei suoi viaggi, dei suoi partner commerciali. La gente guarda le sue foto, clicca Like, fine. Mariano di Vaio, grazie a questo meccanismo tipico del Visual Storytelling, è uno dei blogger più famosi del mondo.
Di Vaio è l’esempio più esasperato, ma di “blogger” così, in Italia, è pieno il web. Fino a tre, quattro anni fa (quando scrivevo questo pezzo su come diventare blogger) “bastava” saper scrivere per aprire un blog. Avere un’idea e svilupparla. Raccontare cose. Due righe o cinquanta, insomma, scrivere. E se pensate che questa sia la cosa più banale che io abbia mai detto, pensate a quanti dei vostri contatti si fregiano del titolo di Blogger – ne hanno persino fatto una professione – ma non scrivono mai niente.
Con la scusa di fare storytelling social, o Visual Storytelling, o Storytelling Photography, quelli che non hanno niente da dire sono andati a cercar fortuna su Facebook o su Instagram, dove è più facile spostare il peso di un racconto dalle parole all’immagine. In pratica nel giro di due anni sono spuntate fuori un sacco di persone che scattano foto di cose bellissime e non sanno cosa dirci intorno. Non sempre la foto è così bella da riuscire a parlare da sola.
Questi personaggi vanno agli eventi più meravigliosi, hanno accesso ai backstage più ambiti, vengono invitati ai blogtour più spettacolari in posti mozzafiato, conoscono vip, frequentano le redazioni delle testate più importanti e l’unica parola con la quale riescono a commentare la cosa fantastica che stanno vivendo è Amazing!
Quindi ogni evento è amazing, ogni team con il quale collabori è amazing, ogni esperienza non merita più di una manciata di parole per essere descritto. Amazing è la parola designata da uno che non ha niente da dire per descrivere una cosa effettivamente bellissima a un pubblico che lentamente si è abituato a questo tipo di racconto. Deve esistere un app-vocabolario di frasi fatte per blogger che non sanno scrivere, e Amazing è chiaramente l’unica parola che vi compare. Ho visto post di influencer molto seguiti rappresentati da un check-in nel luogo dell’evento e dall’immancabile Amazing! con centinaia di Like: è l’effetto storytelling che non racconta niente, a un pubblico di followers che non sono più lettori. Se sono diventati tali è perché non c’è più niente da leggere.
Quindi sì, lo storytelling social fatto così è una cagata pazzesca, soprattutto perché non ho ancora capito cosa vuol dire storytelling alla luce del fatto che nessuno racconta più storie, semplicemente perché non sa come farlo e non sa cosa dire. A volte non conosce l’italiano e il valore della punteggiatura, quindi non solo non racconta niente, ma lo fa pure male.
Di chi è la colpa non lo so. Forse del followers che si accontenta. Forse dell’agenzia che vuole numeri e basta. Di certo non del blogger che va dove lo porta il vento: una volta era il sito figo, poi erano le tweetstar e adesso gli instagramers. Ovunque tiri la brezza, comunque so sssoldi: se te li danno, che fai, glieli lasci?
L’altro giorno mi hanno chiesto se per diventare un blogger famoso bastano 10 mila followers su Instagram o sono ancora pochi per definirsi tale. Ecco perché lo storytelling sui social è una cagata pazzesca: perché nessuno sa più che vuol dire scrivere per un lettore, visto che tutti ormai scrivono per il Like.
Saper scattare una foto e postarla su Instagram non è fare storytelling.
Avere la fanpage personale per pubblicare una lista infinita di brand con cui si è collaborato non è fare storytelling.
Andare alle sfilate in front row e descriverle solo con Wow! fa capire che non sai niente di moda, non che stai facendo storytelling.
Chiara Ferragni e Mariano di Vaio (e un altro centinaio di colleghi italiani più o meno famosi) hanno lavorato bene di Personal Branding, ma non fanno storytelling.
Fare un video su Youtube in cui mi parli dei prodotti beauty preferiti del mese è fare promozione, non storytelling.
Chiedere agli uffici stampa prodotti e inviti per “raccontare il mondo del Brand” vuol dire scroccare, non fare storytelling.
Usare molti hashtag vuol dire conoscere il significato di alcune parole, non fare storytelling.
Se vai in giro per il mondo perché dici di scrivere per il web e ti hanno invitato per raccontare una storia ai tuoi followers e non sai dire altro che un mucchio di idiozie senza senso perché non hai opinioni in merito, beh, non solo non sei uno storyteller, ma non ti meriti neanche il grande privilegio che ti è stato concesso: quello di vivere una bellissima esperienza, senza avere nulla da dire a riguardo. Per fare una bella foto a un posto bellissimo non ci vuole poi molto: fa tutto il posto bellissimo. E tu, hai qualcosa da aggiungere?
* foto di copertina: ipirati.net
Non so chi sia quel tipo, ma hai ragione. Una foto non è storytelling, specialmente se raffigura i calzini griffati che ti sei appena messo.
Oggi si abusa di tantissimi termini, uno dei quali è storytelling. Hai fatto l’esempio di Youtube: ho visto parecchi video spacciati per storytelling aziendale, ma invece erano solo spot pubblicitari.
va di moda parlare di storytelling, ma ben pochi hanno capito che cosa sia e soprattutto come vada fatto.
Non sono per nulla d’accordo con il tuo “sfogo”. Se a quelle foto e quegli Amazingle persone rispondono con centinaia di azioni sui social vuol dire che qualcosa raccontano. Può non piacerci quello che raccontano ma non possiamo fare finta che facciano altro (cosa poi?). Sul fatto che quei racconti siano di bassa qualità o poco interessanti sono d’accordo con te. La mia sensibilità e la tua sono in linea su questo aspetto, ma non mi pare che la “qualità” muova facilmente grandi numeri, per cui il tutto mi pare fisiologico.
@elpinta siamo d’accordo sul fatto che se c’è qualcuno che apprezza, allora evidentemente la strada è da perseguire. Lo dico a un certo punto quando mi chiedo di chi sia la “colpa”, sempre che di colpa si possa parlare (hai ragione tu, è fisiologico): di certo non è dell’influencer che cavalca l’onda. Il pezzo è provocatorio; ma non mi rimangio il fatto che sono convinta che chi scriva per il web sia tutta un’altra figura professionale che non ha niente a che vedere con chi Cito nel pezzo. Grazie per il tuo commento!
Leggendo questo post mi è venuta in mente Lena Dunham che rispondendo alle critiche per l’uscita del suo libro diceva, se non ricordo male, che tutti hanno una storia da raccontare e tendenzialmente bisognerebbe essere felici anche solo per il fatto che lo facciano, che è anche un pensiero condivisibile, a patto però di precisare che non conta solo avere qualcosa da dire ma anche, e soprattutto, il MODO in cui lo si dice.
Ignoravo che uno che fa le cose che fa di Vaio potesse essere considerato uno “Storyteller” e mi stupisce che un account su instagram possa essere considerato l’evoluzione (o una delle evoluzioni) dei blog. Instagram lo sfogli sul cellulare, al volo. Mentre vedi le sue foto vedi anche quelle di altri 100 utenti che segui. Un blog è (o era?) una cosa più indipendente. Non serve che sia parte di un circuito.
Post interessante che esprime riflessioni che facciamo in tanti. Io (e molti altri che conosco ) ci impegnamo molto per i contenuti, per perfezionare lo stile, per i migliori titoli SEO etc. ma penso che nel regno del mobile l’immagine vinca su tutto. Perché con il mobile vai veloce, guardi la foto, metti like e condividi. Non è il mezzo migliore per riflettere e commentare. Per non parlare del fatto che si commenta in prevalenza su Facebook e meno sui blog . ..
@veronica: hai ragione, ma il commento Social è fisiologico. Io stessa mi sto stupendo di quanti commenti stiano arrivnsdo qui sul blog, di solito il dibattito rimane sui Social! Grazie per il tuo commento quindi 🙂
Interessante articolo Giovanna! Grazie per avermi ‘acculturato’ su un mondo che conosco poco, quello appunto dei fashionstorytellingblogger 🙂 e concordo con te sul fatto che il web è pieno di persone che hanno molto seguito postando foto commentate in modo banale. In effetti in molti sono seguitissimi (probabilmente più di tanti che si fanno il mazzo per creare cose di qualità) e qui nascono le grandi riflessioni…
In qualsiasi caso non si tratta di blogger nè di storyteller ma fanno un’altra cosa. Sappi che ho adottato il tuo post nella community di ‘Adotta1blogger’!
@maria cristina: grazie!
È vero, il Visual Storytelling sta diventando una patente per quelli che non sanno raccontare o peggio non sanno scrivere. Blogger è proprio un’altra cosa. E lo storytelling social è un po’ come lo zapping: è frammentario, superficiale e soprattutto non-memorabile. Dopo 5 minuti non ti ricordi più niente di quello che hai visto, ma la tua mente intanto ha incamerato una marea di cazzate…
Condivido volentieri la tua riflessione, grazie.
@alessandro: hai usato un termine che non mi sarebbe mai venuto in mente, è proprio una patente 🙂 grazie!
Questo è tutto tranne che storytelling. Come hai scritto giustamente tu, può essere un modo per fare personal branding, ma raccontare storie è veramente tutt’altro. Possiamo rigirare la frittata come vogliamo, ma scrivere implica un’attività diversa. Basta pensare al verbo che esprime l’azione per farsi un’idea.
Bell’articolo 😉
@sara grazie!
Prima di tutto, sono lieto di aver incontrato questo blog, è sempre bello trovare persone con qualcosa di interessante da dire! 🙂
Per quanto riguarda il tema del post, tendo a concordare: forse il mondo della Moda tende per sua natura a prediligere il solo aspetto visivo, ma in generale non basta: idealmente parole e immagini (e magari anche suoni!) dovrebbero coesistere e “cooperare” alla trasmissione del messaggio, della Storia che si vuole narrare.
Grazie per lo spunto di riflessione, buon weekend (magari faccio un salto su MDVStyle prima di rifarmi il guardaroba :P).
Ciao a tutti! Scusate se il mio commento arriva un pó in ritardo ma ho letto solo ora il post di Giovanna. L’ho letto tutto d’un fiato e mi ha divertita. Non saprei dire con certezza se questo sia Storytelling o no, forse èun altro modo di raccontare storie, un modo che punta a suscitare emozioni semplici e immediate. Un pó come quando ti trovi in edicola e scegli la rivista con un certo accostamento di colori perché ti attrae, ti comunica qualcosa che ti colpisce. Ma quella rivista è simile ad altre per i contenuti. L’immagine è immediata e comunica alla parte meno razionale di noi…quella, per certi versi, più libera e meno complessa. Pensare è più faticoso 😉
Si, è vero. Certe volte alcune figure definite “influencer” non stanno, in alcuni casi, comunicando nulla di specifico.
Niente concetti, ne idee, ne novità ma riescono ad essere, con la loro presenza continua, un riferimento quotidiano.
È come andare a lavoro e incontrare quel collega – o quella collega – che ti saluta ogni volta con un bellissimo sorriso. E magari non vi siete detti nulla ma ti fa piacere sapere che c’è e che, se hai bisogno di un’informazione o di un chiarimento su qualcosa, sai che puoi attingere alle sue conoscenze. Un senso di sicurezza insomma. Ma questa è la mia personale lettura.
Approvo, sottoscrivo e condivido, ovviamente! 😉
Concordo, qualche giorno fa mi chedevo, sul mio blog, in che modo è evoluto (o involuto?!) il fashion blogger in web influencer e a chi giova tutto ciò! Mi è stato segnalato il tuo blog, per altro davvero interessante, proprio in relazione al discorso. Un saluto
Adoro. Non ho altro da aggiungere. Completamente d’accordo!