Il giorno in cui ho capito che per fare bene a mia figlia dovevo prima di tutto fare bene a me e ho deciso di diventare una mamma freelance.
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Facebook mi ricorda che l’anno scorso, in questi giorni, Elena iniziava il suo inserimento al nido. Io sono tornata in ufficio il 4 aprile, dopo 10 mesi a casa: 5 di maternità obbligatoria, 4 di facoltativa e 1 di ferie.
Ho vissuto quei giorni con un nodo alla gola. Elena era molto piccola – aveva 8 mesi – e mi sentivo dilaniata tra la voglia di tornare a fare una vita a ritmi “normali” e quella di continuare a fare le cose da mamma: interminabili passeggiate, orari dilatati e via dicendo. Mi sentivo quasi in colpa per questo desiderio, e mi sentivo in colpa per l’abbandono e alla fine mi sentivo in colpa di sentirmi in colpa, perché, andiamo, sono una persona intelligente, un essere razionale, non la lascio mica per strada, è in ottime mani, io ho bisogno di lavorare, mi piace proprio e via dicendo.
Sono tornata con un sacco di entusiasmo in un ufficio che mi era mancato molto, a lavorare insieme al mio compagno con cui ho condiviso gli ultimi tre anni di vita professionale e con un sacco di colleghi che ancora rimpiango. Per un po’ di mesi sono andata a molla e la complice di questo equilibrio era senz’altro Elena, che si godeva serena la sua nuova esperienza senza essere particolarmente cagionevole di salute (il che, fatemelo dire, è una mamma dal cielo). Uscivo alle 16 grazie all’allattamento, andavo a prenderla, c’era il sole, le belle giornate, la luce fino a tardi: la prendevo, la portavo al parco, giretto sullo scivolo, biscottino, coccole, a casa ad aspettare il papà.
Il tempo pieno a lavoro ha cambiato un po’ di cose. Da settembre a dicembre Elena è rimasta al nido molto tempo ed è cambiata. Voi direte, come mi diceva il mio compagno, che io mi sia suggestionata, che il mio tornare tardi alla sera, lasciandola a mani estranee o in quelle più rassicuranti di mia sorella mi facesse sentire in colpa. Ma Elena era davvero diversa: irascibile, nervosa, capricciosa, stanchissima. Me lo dicevano le maestre al nido e non riuscivo a fare a meno di notarlo quando stavamo insieme.
Un giorno l’educatrice dell’asilo mi ha presa da parte. Una donna dolcissima, pacata e garbata: come una persona cui affidi tua figlia per parecchie ore durante la giornata deve essere, d’altronde. Mi faceva domande strane: cercava di capire se stessi trascurando Elena. Ha fatto un discorso molto lato, voleva arrivarci di traverso per non offendermi. Mi diceva E’ normale avere la testa per aria, pensare ad altro, Elena è un po’ strana, forse hai molto lavoro e lei si sente sola? Elena in quel periodo da bambina molto indipendente era diventata più appiccicosa, ricercava costantemente le braccia delle maestre e non voleva mai mollarle: per loro questo era un comportamento anomalo.
E lo era anche per me. Ai miei occhi quelle frasi di traverso volevano dire solo una cosa, e cioè che stavo sbagliando tutto. In quel periodo ero talmente focalizzata su Elena e sul suo benessere che sentirmi dire quelle cose mi ha gettato nel panico: io non facevo altro che pensare a mia figlia, a come vederla di più, a come trascorrere del tempo d qualità con lei. Ho passato mesi con questo pensiero in testa e da fuori ciò che si notava era invece il fatto che me ne stessi bellamente fregando.
Ci ho messo un po’ di mesi ad elaborare il piano che mi avrebbe riportato alla vita da freelance e a focalizzare un grande obiettivo: prima di pensare ad Elena dovevo pensare a me. Cosa volevo? Ero contenta? Ciò che facevo mi rendeva serena?
Ogni tanto ripenso a come mi sono sentita quando ho capito che i miei sforzi non erano percepiti all’esterno: come se stessi risalendo su uno specchio con le mani ricoperte di burro. Ce la metti tutta, ma scivoli e scivoli, e non potrebbe essere altrimenti: sono le cose della vita che vanno così e certe volte non puoi cambiarle mica.
Nel momento peggiore del mio essere mamma, ho preso una decisione che avrebbe cambiato ritmi, orari e dinamiche familiari e ho cominciato a lavorare per quello.
Ho cominciato a lavorare per me.
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