Bertie ha un problema: balbetta. La sua faccia si contorce nello sforzo di tirar fuori parole fluenti ogni volta che parla, ma non ci riesce. Saltellare sulle frasi non sarebbe poi un nodo così intensamente problematico per Bertie se non fosse per i cerimoniali, le etichette, gli impegni pubblici e, soprattutto, i discorsi ufficiali che è tenuto a fare in quanto Duca di York. Perché Bertie, un soprannome un po’ ridicolo una volta toccata la soglia dei quaranta, è membro della famiglia reale inglese, emerito figlio di un sovrano molto amato (Giorgio V), fratello dello scandaloso Edoardo decaduto per amore di Wallis Simpson e padre di una ancora salda Elisabetta II.
Stretto nella morsa dei rituali di corte, vittima sin da bambino delle ingiustizie dedicate ai più fragili, dal carattere mite e signorile, Bertie (Colin Firth) cresce, si sposa, diventa padre e continua a subire le balbuzie come una terribile punizione per il suo mancato coraggio e la mancata virilità che invece risplende nel fratello ribelle ma di grande appeal, richiestissimo nei salotti mondani. Per il futuro re Giorgio VI, che a posteriori sarà uno dei sovrani più amati della monarchia inglese moderna, non c’è pace davanti a un microfono: non c’è discorso di Natale, proclama ufficiale o comunicato che sappia scandire in modo preciso. Non lo aiuta il boom della radio, mezzo di comunicazione nuovo e indispensabile a comunicare con la Nazione, che lo collega a un numero inimmaginabile di orecchie pronte ad ascoltare la sua disfatta. Una moglie premurosa (Helena Bonham Carter) e un logopedista sagace e anticonformista (Geoffrey Rush) sapranno fare il miracolo, trasformando Bertie, nuova guida di un Paese alle soglie della Seconda Guerra Mondiale, in un uomo sicuro di sè e senza fantasmi.
“Il discorso del re” di Tom Hooper è il film dell’anno. Ha sbancato i Golden Globes e probabilmente trionferà ai prossimi Premi Oscar. Colin Firth, star del cinema inglese che ha saputo in una manciata di anni districarsi tra film di cassetta (la saga di Bridget Jones), musical (Mamma mia!), grandi classici (Orgoglio e Pregiudizio) e un capolavoro pluripremiato (A single man), è l’impeccabile Giorgio VI, perfetto nei completi da gran duca, incredibilmente realistico nei suoi sforzi linguistici. A pieno schermo il suo viso quasi esplode per lo sforzo di parlare correttamente, ma non si frantuma mai. Si inalbera contro sè stesso e contro i metodi poco ortodossi di Lionel Logue, un malizioso e ironico Geoffrey Rush, per poi pentirsi e provare, riprovare e ancora tormentarsi per uscire dal pantano.
I due protagonisti funzionano sul grande schermo quasi quanto il re e Logue nella vita, forti di un’amicizia durata fino alla morte. La macchina da presa, sapiente e classicheggiante ma sempre delicata, si muove pochissimo ma non perde mai di vista i dettagli. Non indugia mai però sui fallimenti già troppo evidenziati di Bertie: non lo vedremo mai umiliato fino in fondo da un discorso che non riesce a portare avanti, perché il montaggio passa alla scena successiva con grazia dopo pochissime, balbettanti battute. Onore, forse, del regista, a una figura storica portata sullo schermo con maestrìa e delicatezza, sostenuta da un cast all’altezza del rango e dei ruoli. Helena Bonham Carter, musa e moglie di Tim Burton, acclamata nei teatri e vezzeggiata da ogni regista sano di mente, sta al suo posto con fermezza senza eclissare nè Firth nè Rush, che, dal canto suo, continua a sfoderare una poliedrica capacità di adattarsi a ogni ruolo. Fotografia limpida di una corte maestosa d’altri tempi, “Il discorso del re” non vince premi solo perché la critica lo acclama, ma perché tutto il pubblico può capire, e simpatizzare e soffrire e agitarsi in poltrona per le sorti di un sovrano che voleva fare la cosa giusta, comunicarla al suo popolo, guidarlo verso la guerra e senza nessuna esitazione.
P says
“Il discorso” abbina un’ironia lieve (le scene in stile “atelier teatrale” in presenza della Bonham Carter e di Rush sono le migliori) a una, a tratti faticosa, coerenza storica. Coesione che non manca quando si tratta di sottolineare il peso delle oppressioni in età da fanciullo e la freddezza règia subita dal povero Albert “Bertie” Frederick Arthur George Windsor. Peccato che l’approfondimento duri poco e che il regista Tom Hooper passi presto “al servizio di sua Maestà”, dimostrando quanto sia bravo nella direzione degli attori piuttosto che nelle disamine visive, ogni tanto sfuggenti al suo sguardo; fanno eccezione i microfoni, che diventano magnifici e intollerabili oggetti ansiogeni.
Giovanna Gallo says
@p grazie P. per il tuo commento. Ho fatto un giro sul tuo blog e ho notato che è un pezzo della recensione che hai fatto dello stesso film. Inserita nel contesto del tuo articolo, la tua opinione ha chiaramente una sua collocazione che in buona parte condivido. E’ stato detto di questo film che è senza anima, costruito a tavolino per l’Oscar (centrando il bersaglio). Sarà che sono donna e sensibile, ma io mi sono commossa, a prescindere da tutte le varianti tecniche che io nel mio piccolo e tu approfonditamente abbiamo analizzato. Non ci vuole un esperto di cinema per capire che abbiamo guardato un buon girato, un buon montaggio e una buona sceneggiatura, e questo mi basta, una volta tanto, per dire di aver visto un buon film.
Torna presto a trovarmi!
G.
Pompiere says
Eccomi, Giovanna 🙂
Ho avuto l’impressione che, con “Il discorso del re”, si sarebbe potuto fare molto di più. Non so precisamente da cosa sia dipesa questa eventuale mancanza: anima ne ho trovata poca, in verità. Sicuramente è un film che non annoia, godibile in molte scene, più prevedibile e consono in altre. Mi è piaciuto il montaggio, un po’ meno la sceneggiatura, a mio avviso un po’ generalista.