“E tu, che parola useresti per descriverti?“, chiede la ragazza olandese a Elizabeth Gilbert, intenta a divorare un piatto di carbonara in una trattoria romana. Elizabeth non lo sa, tergiversa. Ci arriverà alla fine del suo cammino, troverà la parola magica.
Per “Eat, pray, love” di Ryan Murphy, nelle sale dal 17 Settembre, non bisognerà arrivare alla fine di questa recensione per trovare una parola adatta a descriverlo. Non ce n’è solo una, ma tre: strazio, insopportabile, morte subitanea.
Lo strazio persiste fino alla fine, fino a quando, esausta, non esci dalla sala stropicciandoti gli occhi (e non per la luce dopo ore di oscurità – leggi “pisolino”). Comincia quando Liz, scrittrice in carriera con un bel matrimonio, una bella casa, un bel guardaroba e capelli invidiabili, decide che non ne può più della perfezione e divorzia e finisce quando decide di ricominciare ad amare dopo mesi di meditazione e pippone da devotrovareilmioequilibrio e santoni magici/sciamanici.
La parola insopportabile ben si appiccica alle scene girate in Italia, tanto citate nella letteratura dell’orgoglio nazionale (“Julia Roberts gira in Italia, siamo famosi”). Se di Eat – Mangiare, si tratta, allora che si mangi. Coi suoi adorabili capelli mossi dalla brezza romana, vestita del suo sorriso, Liz-Julia assaggia, azzanna, mordicchia qualunque cosa le capiti a tiro, circondata da un branco di macchiette italiche che, a confronto, la scena dei Telegatti di Somewhere della Coppola è fonte di onore e lodi per il nostro Paese. Non si capisce come – ma questa è una pecca del doppiaggio – la povera Liz, che della lingua conosce solo la parola SPAGHETTI, riesca a cogliere le battute dell’immotivata padrona di casa siciliana che la ospita, tra cui la parola “sazizz‘”, per cui si intende sì, proprio quello, quello che piace tanto prendere alle americane giunte in Italia. E non si capisce neanche perché, se una scrittrice di successo può permettersi un viaggio intorno al mondo di un anno per riscoprire sè stessa, non possa anche pagarsi un appartamento decente, e non una casa fatiscente, senza scaldabagno, nel centro di una Roma sporca e volgare. Luca Argentero, doppiato come peggio non si potrebbe, la porta a spasso a conoscere le gesta di noi italici dediti al dolcefarniente, alla mano morta per strada, alla caciara, ma sempre fedeli a mammà e all’ammmmore. Se di Pray – Pregare, si tratta, allora che si preghi. Nei suoi adorabili chignon intrecciati e mossi dalla brezza indiana, Liz-Julia si butta a pesce nel mondo dei santoni, delle preghiere, degli “Oooom!Oooom!” della meditazione. Scene lunghe, lente, in cui la sola cosa interessante è capire come diavolo ricreare quegli stessi chignon sulla propria testa, con lo stesso motivo di intrecci.
Se di Love – Amore, dobbiamo parlare, allora amiamo. Arriva Javier Bardem, l’uomo dell’imbroglio. Lo vedi da lontano e dici: “Caspita, che fascino stropicciato, che capello sbarazzino, che fisico da urlo“. Lo vedi da vicino, e alcune inquadrature spietate lo ritraggono come l’homo erectus, ma senza tutti quei peli e un po’ più dritto. Ancora alla scoperta di sè stessa, ancora incapace di amare, la povera Liz-Julia si affiderà alle pagine stantie di un vecchio mago, farà un po’ di beneficienza, e muoverà i sinuosi capelli alla brezza di Bali.
Tutto questo per circa 2 ore e un quarto. La parola chiave, ricordiamolo, è strazio.
Morte subitanea la desideri più o meno a metà, quando sei in fase Eat e sai che mancano all’appello ancora quella Pray e quella Love. Morte subitanea la desideri quando il fidanzato toy-boy post divorzio (e pre viaggio della coscienza), per non fare sesso, le dice: “Lascia che senta la tua mancanza“. Provate a dirla voi al vostro fidanzato. Di certo vi manderà lì dove vi meritate.
Il film di Ryan Murphy, tratto dall’autobiografia di Elizabeth Gilbert, è frutto di stereotipi vecchi come il mondo e lunghi panegirici di cui nessuno sentiva il bisogno. Il fatto che quello di Julia sia un personaggio reale non fa che rendere il tutto ancora più antipatico, più futile. Gli spunti sono tutti messi lì per emozionare, ma se di lacrime si parla, non le ha certo provocate l’emozione.
Una donna può desiderare di fuggire da una vita che tutti credono perfetta anche mille volte nella vita e prendere e partire, ah, è un vecchio sogno di tutti. Tanto di cappello a questa signora che l’ha fatto e ha provato a sentirsi di nuovo viva attraverso il viaggio. Ma la versione cinematografica del romanzo, non rende giustizia agli stati interiori di questa donna. Ce la rende solo odiosa, superficiale e lamentosa, e per quanto Julia Roberts abbia i capelli perfetti e invidiabili e un sorriso che non si è mosso di un centimetro dai tempi d’oro di Pretty Woman, tutto ciò non basta.
Due frasi filosofiche sulla vita e sulla ricerca interiore buttate qua e là non fanno certo pathos. Al massimo, ti fanno ardetemente sperare una cosa.
In questo caso, la parola giusta è
fine.
Morgana says
Meno male che lo hai visto tu per me questo film, così me lo risparmio !
GIOVANNI says
Sai ho moleggiato il film stasera e la recensione che hai scritto è la trascrizione esatta di quello che avrei scritto io! Mi chiedo: come mai una super star come la Roberts, circondata sicuraente da un sacco di gente che lavora per lei, non si è resa conto della boiata pazzesca che hanno realizzato? Come mai non le hanno detto, appunto, dello STRAZIO che si prova nel vedere questo film?